Secondo il rapporto della Fao “State of the world’s biodiversity for food and agriculture”, un terzo di tutti i prodotti alimentari a livello mondiale, circa 1,3 miliardi di tonnellate, viene perduto ogni anno lungo la catena di approvvigionamento. Nella spazzatura viene buttato cibo per un valore di 2 miliardi e 600 milioni di dollari, equivalente a 3,3 miliardi di tonnellate di anidride carbonica, circa il 7% delle emissioni globali di gas serra. Per garantire un sistema produttivo e di consumo più sostenibile è essenziale passare a pratiche circolari, come prevede il 12esimo dei 17 SDGs, gli obiettivi di sviluppo sostenibile dell’Agenda 2030 dell’Onu, e considerare il rifiuto come una nuova risorsa. È da qui che ha preso il via “The Zero Waste Future”, il nuovo appuntamento della serie dei “Think4Food Talk”, ideata da Legacoop Bologna e Future Food Institute per promuovere la Call 4 ideas di Think4Food.
Ospiti del talk – dedicato ai progetti che il mondo dell’università, della ricerca e delle startup stanno seguendo per ridare nuova vita ai rifiuti e costruire un futuro senza sprechi – il professor Andrea Segrè, la vicepresidente di Innovacoop Francesca Montalti, la professoressa Annamaria Celli e Alberto Drusiani, Ceo e co-founder di SquisEat. Moderatore, Francesco Castellana di Future Food Institute.
Il “chilometro zero” dello spreco
Il massimo esperto in Italia di lotta allo spreco alimentare è il professor Andrea Segrè, docente di Politica agraria e internazionale comparata all’Università di Bologna, presidente e fondatore di Last minute market, nonché fondatore di Spreco Zero. “Siamo partiti 20 anni fa con uno spinoff universitario che è ancora attivo, il Last minute market, che nel frattempo è diventato un’impresa sociale – spiega Segrè –. Allora la nostra era una ‘mission impossible’, ridurre gli sprechi a zero. Gli sprechi sono una sorta di malessere della nostra società: perché gettiamo del cibo che potremmo ancora mangiare? Con un gruppo di studenti che nel 1999 mi chiesero la tesi, avviammo questo percorso che portò in 3-4 anni all’attivazione del primo progetto di recupero di alimenti invenduti, in quel caso nella grande distribuzione, che venivano raccolti e donati a enti caritativi secondo un principio di prossimità”.
Con Last minute market è nato così il “chilometro zero” dello spreco: “Recuperi lì dove si forma l’eccedenza e lì la consumi – aggiunge Segrè –, perché se la trasporti, se la stocchi, se la ridistribuisci, questo ha un costo e qualcuno lo dovrà sostenere”. Se recuperi questo costo non c’è, e anzi si genera risparmio per le imprese, che non devono più sobbarcarsi le spese di smaltimento. Dal modello di Last minute market, che unisce la lotta agli sprechi all’interno dei supermercati alla solidarietà, nel 2010 si è passati a Spreco Zero: “Studiando la filiera ci siamo infatti accorti che l’anello più debole, quello dove si concentra lo spreco alimentare, è a casa nostra e lì non si può intervenire con azioni di recupero, perché non avrebbe un senso dal punto di vista logistica né lo si potrebbe fare dal punto di vista sanitario”.
Per combattere gli sprechi dentro casa, che corrispondono al 70% degli sprechi agroalimentari, bisogna però cambiare comportamenti e tornare a dare valore al cibo. “La parola d’ordine è fare prevenzione – continua Segrè –, perché il miglior rifiuto è quello che non fai. Come? Attraverso l’educazione alimentare”. Alla campagna di sensibilizzazione di Spreco Zero, negli anni si sono così aggiunti la “Giornata nazionale di prevenzione dello spreco”, in programma il 5 febbraio, e il premio “Vivere a Spreco Zero” per le aziende pubbliche e private più virtuose. “In questi anni di studio mi sono accorto che il problema sta proprio nei nostri comportamenti – conclude –, è come se negli ultimi 50 anni, soprattutto noi italiani, avessimo perso il valore della cura del cibo”.
Dal recupero alla valorizzazione degli scarti
“Il tema della lotta agli sprechi è un tema a cui teniamo particolarmente come movimento cooperativo e che ci vede coinvolti in molte iniziative, in cui assume un rilievo sempre più importante il recupero degli scarti e la loro valorizzazione”: al talk di Thnk4Food è intervenuta anche Francesca Montalti, vicepresidente di Innovacoop, società di Legacoop Emilia-Romagna che a livello regionale promuove l’innovazione e l’internazionalizzazione delle imprese associate a Legacoop. Innovacoop, tra l’altro, è partner del progetto europeo PROLiFiC: “Nasce da un’iniziativa sulle bioindustrie lanciata dalla Commissione europea con una partnership pubblico-privata, che ha proprio l’obiettivo di utilizzare risorse biologiche rinnovabili nei processi industriali”.
PROLiFiC vuole valorizzare gli scarti dei processi di lavorazione del caffè, dei legumi e dei funghi, per riutilizzarli nell’industria della cosmesi, del packaging e della mangimistica. “È vero che la migliore strategia per la riduzione del waste è la prevenzione, ma laddove lo spreco continua a generarsi, occorre sviluppare nuove tecnologie e nuovi processi per limitare lo spreco e realizzare nuove filiere del valore, rendendolo occasione di crescita dell’intero sistema economico”.
Il fondo di caffè è inoltre un substrato perfetto per coltivare i funghi, perché contiene minerali e sostanze nutritive utili per la loro crescita. Anche in questo caso, quello che sembra uno scarto può diventare una risorsa: lo dimostra la startup Funghi Espresso, che dai fondi di caffè, raccolti in bar e ristoranti, realizza dei kit per la coltivazione domestica dei funghi. Anche il Future Food Institute, in collaborazione con Coop Alleanza 3.0, Impronta Etica e Igd, ha avviato un progetto per trasformare i fondi di caffè e le bucce di arancia in capsule di fertilizzanti a uso domestico, come ha spiegato Francesco Castellana, moderatore del talk.
I residui agroalimentari diventano bioplastiche
Annamaria Celli, professoressa associata al dipartimento di Ingegneria civile, Chimica ambientale e dei materiali presso l’Università di Bologna, è tra i responsabili del progetto PROLiFiC, che è portato avanti da 17 partner (università, centri di ricerca, ma anche imprese del settore della panificazione, della torrefazione, della coltivazione e della trasformazione) di 8 Paesi europei: Italia, Spagna, Francia, Svizzera, Germania, Belgio e Grecia. Nello specifico, la professoressa Celli studia come trasformare i sottoprodotti dell’industria agroalimentare in materiali plastici sostenibili.
“Ci siamo resi conto che l’industria agroalimentare produce una gran quantità di residui – spiega –: per esempio, i piselli, i fagiolini e i ceci che non risultano più vendibili perché magari si sono rovinati durante il trasporto, oppure gli scarti della lavorazione del caffè”. Diverse le sperimentazioni in corso per il progetto PROLiFiC. “Stiamo cercando di riutilizzare gli scarti di ceci e piselli sia come ingredienti per alimenti e mangimi sia per il packaging attivo”. Lo stesso con il caffè: “Dalle pellicole che rivestono i chicchi e che vengono scartate dopo la tostatura, è possibile estrarre delle molecole, i peptidi, che possono essere riutilizzate nel packaging attivo”.
Ma che cos’è questo packaging attivo? “I peptidi – risponde la professoressa – possono conferire alle plastiche delle proprietà antiossidanti e antibatteriche: così il packaging non è più un semplice contenitore di cibo, ma diventa qualcosa che lo protegge e ne allunga la vita”. Non solo: i peptidi sono caratterizzati da proprietà sbiancanti e potrebbero essere utilizzati per prevenire l’imbrunimento del cibo. C’è però un problema: se da una parte queste molecole possono essere estratte agevolmente, non resistono però alle alte temperature necessarie per la produzione della plastica.
“Ma all’interno dell’Università di Bologna stiamo mettendo a punto delle strategie di protezione – aggiunge Celli –: queste molecole possono essere infatti facilmente incapsulate in nanostrutture biocompatibili a strati, dopo di che possono essere mescolate in polimeri allo stato fuso, così da ottenere materiali multifunzionali, che conservano le proprietà antibatteriche, antiossidanti e anti-imbrunimento dei peptidi”.
Non è la prima volta che il dipartimento di Ingegneria civile, Chimica ambientale e dei materiali dell’ateneo bolognese si cimenta nella valorizzazione degli scarti. “Le acque reflue prodotte dall’industria olearia contengono, in concentrazioni significative, fenoli e altri composti organici che hanno proprietà antiossidanti. Abbiamo aggiunto queste molecole a materiali plastici, ottenendo risultati molto interessanti: i materiali stessi sono diventanti più resistenti all’ossidazione e più durabili, e queste stesse proprietà possono essere trasferite ai cibi contenuti in imballaggi sostenibili”.
C’è un secondo filone di ricerca del progetto PROLiFiC che mira a riutilizzare i residui solidi di ceci, piselli e caffè, ma anche le vinacce e i residui fibrosi ligneo-cellulosi come le graspe di vite, per produrre nuovi biocompositi. “Il processo è molto semplice e assolutamente ‘green’ – illustra la professoressa Celli –: basta frantumare questi residui, ridurli in polvere e mescolarli con un polimero prodotto da batteri, biodegradabile e compostabile. Così siamo riusciti ad ottenere, ad esempio, delle capsule del caffè, fatte con residui del caffè stesso”.
Per riassumere: i sottoprodotti della lavorazione dell’industria agroalimentare sono fonti di molecole con proprietà antiossidante, antibatterica e sbiancante; queste molecole possono essere usate per produrre un packaging attivo; i residui finali, prodotto dopo l’estrazione delle molecole bioattive, e tutti i residui fibrosi possono essere inoltre utilizzati per ottenere nuovi biocompositi; scarti e sottoprodotti possono quindi diventare una risorsa preziosa per realizzare nuove bioplastiche, secondo i principi di economia circolare.
SquisEat: valore alle eccedenze alimentari
Con l’Sdg 12, le Nazioni Unite aspirano a cambiare il modello attuale di produzione e di consumo per ottimizzare l’uso delle risorse naturali, riducendo gli scarti. SquisEat, una delle realtà vincitrici nel 2019 della Call 4 ideas di Think4Food, vuole proprio mettere in comunicazione chi ha prodotti in eccedenza con chi è interessato a comprarli. “Siamo una piccola startup di Bologna e siamo attivi da meno di un anno – dice il Ceo e co-founder Alberto Drusiani –. Siamo nati con l’idea di dare valore ai prodotti in eccedenza nei locali con un’ottica di sostenibilità di mercato, cioè non come no-profit, ma facendo sì che questi prodotti vengano acquistati. Pensiamo alla lasagna invenduta nel bancone: noi la recuperiamo e la vendiamo a potenziali clienti, ovviamente a prezzo ribassato, dando un incentivo monetario anche all’esercente”.
Il lavoro più grosso è convincere i consumatori che non stanno comprando uno scarto di poco valore. “Noi non puntiamo sul ‘compralo perché costa poco’, ma sul ‘compralo perché stai facendo qualcosa di buono’ e oltretutto stai acquistando un prodotto di alta qualità, spendendo meno: così si aiuta l’ambiente, il proprio portafogli e anche l’esercente”. Dall’inizio della sua attività, SquisEat ha recuperato seimila porzioni di prodotti, che equivalgono a circa 2 tonnellate di CO2 non emessa.
“Negli ultimi mesi abbiamo pensato di fare un passo indietro nella catena distributiva, chiedendoci se il problema delle eccedenze alimentari ci fosse anche a livello produttivo, oltre che nella ristorazione. La risposta è sì, ed è un’eccedenza molto più recuperabile, perché si tratta di prodotti che hanno scadenza anche a 6 mesi, ma che per dinamiche commerciali non si riescono a vendere alla grande distribuzione. Le aziende rimangono così con grandi quantità di prodotti in magazzino: o li smaltiscono – e lo smaltimento costa – o li donano oppure devono trovare mercati secondari. Ecco, noi vogliamo fornire quel mercato secondario, vendendo quei prodotti ai ristoranti”.