Quando compriamo una bottiglia di salsa di pomodoro, raramente siamo consapevoli che c’è un’alta probabilità che sia stata prodotta attraverso il lavoro di quella che molte Organizzazioni non governative (Ong) internazionali definiscono la schiavitù del XXI secolo: il caporalato nel sud Italia. Per opporsi allo sfruttamento dei lavoratori e a tutto il circolo vizioso di ingiustizie cui il caporalato da origine, quattro anni fa nasceva “Funky Tomato”, un progetto nato in Basilicata da un gruppo di attivisti che decisero di avviare un esperimento di comunità nella città che ospitava il ghetto di Boreano. Ne derivò “un contratto di rete”, un patto mutualistico tra produttori, braccianti, consumatori, in cui tutti si conoscono e si sostengono e che pone al centro della produzione agricola la dignità del lavoro e delle persone.
I produttori di Funky Tomato coltivano esclusivamente ecotipi, cioè sementi pure, più delicate e complesse da realizzare, a differenza degli ibridi più resistenti tipici delle coltivazioni agroindustriali e che facilitano la raccolta meccanica. Le “sementi antiche”, invece, si fanno portavoce di un’agricoltura non automatizzabile, che rispetta l’ambiente e che pone il bracciante al centro della filiera, poiché è lui che si prende cura del prodotto dall’inizio alla fine. Inoltre la filiera si basa sul meccanismo del preacquisto: in questo modo si ottiene una retribuzione degna per i lavoratori e una conserva di pomodoro al naturale. “La natura è multicolore, la terra è senza confini, il pomodoro è funky”, così recita uno dei motti dell’ambizioso progetto che prosegue a pieno ritmo.
di Teresa Panzarella